Il Jobs Act è una riforma del diritto del lavoro, promossa nel 2014, per ridurre il tasso di disoccupazione. Ma che cosa ha comportato il suo demansionamento? Cosa comporta?
Il Jobs Act
Prima di trattare del suo demansionamento, è bene parlare del Jobs Act. Esso è stato emanato per la prima volta nel 2014, durante il governo Letta, e fino al 2016 sono stati emanati diversi decreti legislativi su di esso. Alla fine del 2016, secondo l’ISTAT, il numero degli occupati salì a 22,83 milioni, e rispetto al 2014 erano aumentati di 563000.
I contenuti principali di tale riforma comprendevano:
- l’introduzione del contratto a tempo indeterminato, per tutelare il lavoratore dipendente dai licenziamenti senza giusta causa;
- l’emissione della NASpI, ovvero la Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego, un’indennità mensile per i lavoratori subordinati che perdono involontariamente il lavoro;
- la rimodulazione dei contratti di lavoro dipendente, in Italia;
- incentivi e decontribuzioni per le imprese, in modo da favorire assunzioni, a tempo indeterminato.
Sempre in merito all’introduzione del contratto a tempo indeterminato, esso preveda l’applicazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, a cui si ricorre per ipotesi di illegittimità del licenziamento, per assenza di motivazione o inosservanza degli obblighi procedurali. In questo caso, dopo i primi tre anni del rapporto di lavoro, la reintegrazione in esso era limitata in casa particolari, ma con il Jobs Act si poteva ottenere un indennità a titolo di risarcimento.
Il demansionamento
Nel 2015, venne anche approvato il demansionamento del Jobs Act, in caso di modifica degli assetti organizzativi di un’azienda, che vanno ad incedere sulla posizione dei lavoratori subalterni. I dipendenti, in questo caso, possono essere adibiti a mansioni diverse da quelli per cui sono stati assunti, ma esso è di tipo inferiore, rispetto alla qualifica precedente, in modo da non ledere la professionalità acquisita dal lavoratore. Se nel contratto di lavoro non si fa, poi, riferimento ad una particolare categoria di mansione, quelle effettive si possono stabilire all’interno di un impresa.
Non bisogna, tuttavia, confondere il demansionamento con la dequalificazione. Quest’ultima, infatti, si verifica se il lavoratore è impiegato per mansioni inferiori a quelli per cui è stato assunto, e rappresenta un’alternativa al licenziamento, mentre il demansionamento è un provvedimento che si prende in caso di forzata inattività. Entrambi, tuttavia, sono dovuti ad un’inadempienza del datore di lavoro.
Questo demansionamento, tuttavia, si dispone solo in alcuni casi, ovvero quando si modifica l’organizzazione aziendale, come è già stato accennato prima, e ciò va a incidere sulla posizione di un dipendente, oppure se è previsto dai contratti collettivi. In tutti e due i casi, le mansioni possono essere ridimensionate, ma devono comunque rientrare nella stessa categoria legale. Il datore di lavoro deve, comunque, comunicare tale provvedimento al lavoratore in forma scritta, altrimenti il demansionamento è ritenuto illegittimo ed egli può incorrere in penalità.